LEIBNIZ

A cura di

ANIMA E CONOSCENZA

L'occasione per Leibniz di approfondire il problema della conoscenza venne dalla lettura del Saggio di John Locke. Rispondendo punto per punto alle opinioni di quell'opera, e ripetendone persino la struttura, Leibniz compose i Nuovi saggi, che tuttavia non pubblicò quando seppe della morte di Locke, sembrandogli scorretto contestare le idee di chi non poteva più replicare. In questione non erano più i princìpi della conoscenza, che già erano stati studiati in ambito logico, ma piuttosto le facoltà e le modalità tramite cui la verità viene raggiunta dall'uomo. Leibniz si schiera apertamente dalla parte di coloro che , da Platone a Cartesio , ritengono che esistano nell' uomo nozioni innate . Ma la difesa dell' innatismo assume in lui un carattere peculiare , dal momento che si incentra sulla distinzione tra percezioni coscienti e percezioni inconscie . Alle piccole percezioni , di cui l' uomo non può essere consapevole proprio a causa della loro ridottissima intensità , devono infatti essere ricondotte quelle conoscenze che l' uomo ritrova dentro se stesso , senza che vi sia una causa empirica della loro origine . Leibniz assume una posizione eclettica, posta però sullo sfondo di un sostanziale neoplatonismo. Di origine neoplatonica è anzitutto la distinzione che viene tracciata tra sensibilità e intelletto o ragione:

Le idee che vengono dai sensi sono confuse, e le verità che ne dipendono lo sono pure, almeno in parte; invece le idee intellettuali e le verità che ne dipendono sono distinte, e non hanno origine né le une né le altre dai sensi, sebbene sia vero che non le penseremmo mai senza i sensi (Nuovi saggi, 82 = R 438).

Va osservato che questa distinzione è semplicemente qualitativa, e per di più si compie attraverso infiniti gradi intermedi per il «principio di continuità»: sensibilità e ragione sono quindi solo due espressioni della stessa facoltà percettiva. Alla ragione, in particolare, spetta il compito di indagare le verità eterne, o appunto «di ragione», che sono valide in qualsiasi mondo possibile, dal momento che le verità contingenti possono invece essere conosciute dall'uomo solo per esperienza, e dunque con l'aiuto dei sensi. Questa distinzione viene usata da Leibniz anche per rifiutare l'empirismo radicale di Locke, secondo il quale nell'uomo non esiste alcuna idea innata anteriore e indipendente dall'esperienza:

Si tratta di sapere se l'anima in sé sia interamente vuota come delle tavolette dove non è ancora stato scritto nulla (tabula rasa), seguendo Aristòtele e l'autore del Saggio [Locke], e se tutto ciò che vi è tracciato venga unicamente dai sensi e dall'esperienza; o se l'anima contenga originariamente i princìpi di più nozioni e dottrine, che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle occasioni, come io credo con Platone e anche con gli scolastici. ... Da ciò nasce un'altra questione, cioè se tutte le verità dipendano dall'esperienza, vale a dire dall'induzione e dagli esempi; o se ci siano verità che hanno ancora un altro fondamento. Infatti se alcuni avvenimenti possono essere previsti prima di ogni prova che si possa fare, è manifesto che vi contribuiamo con qualche cosa da parte nostra. I sensi, quantunque necessari per tutte le nostre conoscenze attuali, non sono affatto sufficienti per darcele tutte, poiché i sensi non dànno mai altro che esempi, vale a dire verità particolari o individuali. Ora, tutti gli esempi che confermano una verità generale, di qualunque numero siano, non bastano per stabilire la necessità universale di questa stessa verità: infatti non è necessario che ciò che è successo succederà sempre allo stesso modo. ... La logica con la metafisica e la morale (delle quali l'una forma la teologia l'altra la giurisprudenza, naturali entrambe) sono piene di tali verità; e di conseguenza la loro prova può venire solo da princìpi interni, che vengono chiamati innati (Nuovi saggi, Premessa).

In sintesi: l'esperienza non può fornire mai verità universali; ma l'uomo di fatto conosce verità universali; dunque la loro fonte deve essere all'infuori dell'esperienza e trovarsi nell'uomo stesso. È questo il motivo per cui Leibniz altre volte si dichiara sostanzialmente in sintonia con la teoria della reminiscenza platonica: ammettere princìpi innati non significa dichiarare che l'uomo fin dalla nascita li possegga nella loro forma compiuta, ma piuttosto che la struttura del suo intelletto è già predisposta per portarle alla luce, e che si tratta quindi di verità presenti virtualmente, come sarebbero in un blocco di marmo delle venature che già delineino la forma che ne verrà tratta. Con questo stesso significato l'assioma aristotelico-scolastico «nulla c'è nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi» viene ammesso, ma purché si aggiunga: «tranne l'intelletto stesso». Così intesa anche la posizione di Locke può essere accettata:

Forse il nostro abile autore [Locke] non s'allontana del tutto dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato tutto il suo primo libro a rigettare i lumi innati, presi in un certo senso, dichiara tuttavia all'inizio del secondo e nel seguito che le idee che non hanno la loro origine nella sensazione vengono dalla riflessione. Ora, la riflessione non è altro che un'attenzione a ciò che è in noi, e i sensi non ci dànno affatto ciò che noi portiamo già con noi. Stando così le cose, si può forse negare che c'è molto di innato nella nostra mente, giacché noi siamo per così dire innati a noi stessi? (Nuovi saggi, Premessa).

Si comprende così quale sia il legame tra ragione e coscienza (o appercezione), che in effetti sono le due caratteristiche che abbiamo visto contraddistinguere l'anima umana. Benché questa teoria di Leibniz sia diventata molto celebre, è necessario osservare che in realtà essa si pone da un punto di vista solo «popolare». I princìpi della sua filosofia permettevano infatti affermazioni molto più radicali, giacché in senso rigoroso tutte le idee, intellettuali o sensibili che siano, sono innate nell'uomo:

Nulla entra nella mente da fuori, ed è una nostra cattiva abitudine ragionare come se la nostra anima ricevesse delle specie messaggere e come se avesse porte e finestre. Noi abbiamo nella mente tutte queste forme, e per di più di ogni tempo, perché la mente esprime sempre tutti i suoi pensieri futuri, e pensa già confusamente tutto ciò che penserà distintamente. E nulla potrebbe essere appreso se non ne avessimo già nella mente l'idea, che è come la materia di cui questo pensiero si forma. ... Aristòtele ha preferito paragonare la nostra anima a tavolette ancora vuote, dove c'è posto per scrivere, e ha sostenuto che nel nostro intelletto non c'è nulla che non provenga dai sensi. Ciò si accorda di più con le nozioni popolari, come è abitudine di Aristòtele, mentre Platone va più a fondo. Tuttavia questi tipi di dossologie o praticologie possono essere tollerate nell'uso ordinario, più o meno come vediamo che coloro che seguono Copernico non smettono di dire che il sole si leva e tramonta (Discorso di Metafisica, 26-27).

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